domenica 19 marzo 2017

LA VOCAZIONE E "L'ARTE DI GODERSI IL PANORAMA".


Una volta in un gruppo di condivisione ho conosciuto un uomo che per presentarsi agli altri disse: “Io sono quello che agli occhi del mondo non può che definirsi un fallito. A più di quarant’anni vivo ancora a casa con i miei, la donna che amavo mi ha lasciato prima che potessi sposarla, ho speso anni ed energie in una passione per la musica che non è mai diventata un lavoro, e ora rischio di perdere l’attività di famiglia che è quello che finora mi ha dato da mangiare. Perciò ecco, io sono senza dubbio un fallito”.

Per un attimo è calato il gelo. Nessuno si aspettava tanta schiettezza a un primo incontro (nessuno se l’aspetta mai a dire il vero). La cosa più sconcertante però, non era ciò che quest’uomo stava consegnando nelle nostre mani di perfetti sconosciuti, ma il modo in cui lo stava facendo: lui sorrideva. E di un sorriso che non era ironico, nervoso, artefatto: non si stava schernendo per mascherare il dolore.

No. Lui sorrideva davvero. Era sereno, in pace. Di una pace invidiabile. Anzi di più. Sembrava felice.

È a partire da storie come la sua, per cercare di capire quale fosse il suo segreto, che ho deciso di scrivere il post di oggi. Perché diciamocelo, ci sono momenti in cui anche noi (sì, me compreso) abbiamo la netta sensazione di avere fallito, di avere mancato il bersaglio, di essere finiti fuori strada.

Prima o poi capita a tutti di dirsi: “forse non sono dove dovrei essere. Forse ho fallito e nemmeno me ne rendo conto”.  Non è una sensazione che viva solo chi ha tendenze omosessuali, ma ogni persona che fatichi a trovare una collocazione definita nel flusso dell’esistenza. Una domanda che fa riferimento a quello che in termini cristiani si chiama Vocazione, e che purtroppo spesso sembra avere a che fare solo con la parola che segue alla voce “Stato Civile” nella nostra carta di identità: Sposato, Religioso e, il più temuto di tutti, Celibe. Parola che definisce sé stessa solo per negazione: non sposato e non consacrato. Una parola che riguarda milioni di persone è che riecheggia di un senso di fallimento e di non definito.

Non. Ancora una volta.

Certo se la Vocazione corrisponde in definitiva a questo, la parola Celibe costituisce di per sé un marchio di infamia, pesante come la lettera scarlatta dell’adultera e carica di altrettanti sensi di colpa.

Ma è solo questo la Vocazione? Una “X” su un modulo da compilare, un cognome sul citofono, una sigla nei documenti?

O c’è di più?

È proprio di questo che oggi voglio parlare. Della solita semplificazione, che spesso si fa in certi contesti cattolici, che vede la Vocazione ridotta a due sole scelte possibili: o ti sposi o ti fai prete (suora se sei donna). Una specie di schema a doppio binario al di fuori del quale il treno della propria esistenza sembrerebbe non avere altra possibilità che deragliare. Ed è esattamente questa la sensazione che coglie molti di noi: la sensazione di stare correndo su un binario cieco, o peggio di avere già irrimediabilmente deragliato.

La sensazione di aver fallito, appunto.

Se è vero infatti che gli schemi aiutano a orientarsi, è altrettanto vero che l’essere umano non è mai riducibile solo ad uno schema.

Nel tempo gli effetti di questa semplificazione sono stati devastanti: da un lato seminari e conventi si sono riempiti di gente con attrazione per lo stesso sesso o emotivamente frustrata che ha scambiato il sintomo di una ferita affettiva per una scelta vocazionale: “visto che non posso sposarmi perché le donne/gli uomini non mi piacciono/non mi vogliono, per esclusione vorrà dire che devo entrare in convento” (NOTA BENE: non sto ASSOLUTAMENTE dicendo che una persona con tendenze omosessuali non possa avere una chiamata al sacerdozio o alla vita consacrata. Dico solo che in un discernimento vocazionale l’una cosa non è sintomo dell’altra); dall’altro lato uomini e donne che non si sentivano chiamati alla vita consacrata hanno vissuto con l’ossessione di dover trovare moglie o marito, sposandosi frettolosamente, o vivendo angosciati per non essere riusciti a farlo entro una data soglia temporale. Una specie di esistenziale gioco della sedia, dove si corre freneticamente in tondo, nel terrore che finita la musica tutti si siano seduti e tu solo sia rimasto in piedi. Fregato.

Un corollario a tutto questo infatti, è che se hai oltrepassato quarant’anni e ancora non hai trovato il binario giusto, qualcosa dev’essere andato storto. E generalmente per colpa tua.

Così, se già non fosse abbastanza doloroso il fatto di non essere riusciti a corrispondere a un desiderio personale, ad esso devi anche aggiungere il senso di colpa per una “colpa” che non sai nemmeno quale sia.

Quante vite risultano sbagliate o fallimentari di fronte a questo modello, quanti treni “deragliati” senza possibilità di redenzione! Non solo chi non si sposa e non si consacra, ma anche chi muore troppo giovane, chi nasce con un handicap che rende impossibile entrambe le scelte, chi trova il compagno di vita a cinquant’anni, chi si converte da grande, chi resta vedovo presto, ecc. ecc.

Il problema è che noi crediamo sempre di aver compreso Dio (nel senso letterale del termine di averlo con-preso, afferrato, posseduto) e di poterLo per questo infilare nei nostri schemini mentali che ai suoi occhi devono fare tenerezza come gli scarabocchi di un bimbo che rappresenta la mamma e il papà.

Già il far coincidere la vita consacrata con quella sacerdotale è una semplificazione: essere prete o essere consacrato non sono la stessa cosa, per quanto vi siano delle apparenti similitudini. Perciò i binari devono essere almeno tre, e non due. Se poi ad essi aggiungiamo i laici consacrati diventano quattro.

E se per ciascuna di queste opzioni mettiamo le infinite sfumature di carismi, ordini, modalità; e per ciascuno di essi mettiamo il modo personale e unico che ogni essere umano avrà di vivere quel singolo matrimonio, carisma, ordine e modalità… capiamo che il binario matrimonio-vita consacrata risulta estremamente riduttivo rispetto all’infinita creatività di Dio.

Forse invece di “Nella vita o ti sposi o ti fai prete” la frase che meglio riassume la scelta vocazionale è “nella vita le vie del Signore sono infinite”.

Che certamente suona più credibile di “Le vie del Signore sono… due”. Non trovate?

Insomma, il “Signore” di cui parliamo non è il peggiore ingegnere civile sottopagato di chissà quale ex Repubblica Sovietica.

È il Signore dell’Universo. Dio.

Dopo avere creato gli infiniti sistemi solari e la complessità straordinaria degli organismi pluricellulari, saprà pure fare più di due binari esistenziale per i miliardi di persone che si sono succedute su questa terra, o no?

Ecco, detto questo, la questione ritorna: allora cos’è la Vocazione? Perché quell’uomo di cui vi ho parlato, sembrava averla compiuta nonostante fosse un fallito?

Vi dico quello che ho visto io.

I più esperti lo sapranno: Vocazione vuol dire Chiamata. Per un cristiano trovare la propria Vocazione, cioè il proprio posto nel mondo, significa rispondere a una chiamata alla vita che Qualcuno ti ha fatto fin dalla notte dei tempi, per il compimento di una missione.

La cosa strana è che per rispondere a questa chiamata, devi fare una domanda, che contrariamente a quanto alcuni dicono non è solo “Devo sposarmi o farmi prete?”. Si tratta di una domanda più semplice, ma non per questo più facile: “Signore, come posso oggi amare di più?”

Tutto qui?
Sì, tutto qui.

Nel senso che tutto, ma proprio tutto ciò che siamo si risolve qui: come posso, oggi, con quello che sono, con le ferite che porto, con la storia che ho, con le risorse che mi hai dato, amare di più?

Amare di più. Quelli che mi circondano. Oggi. Qui e ora.  Non fra un anno, non quando troverai la persona, non quando capirai la strada, non quando entrerai in convento, non quando vivrai da un’altra parte…

Oggi. Perché il futuro non ci appartiene, e il presente è l’unico tempo in cui ci è dato di vivere.

Se la domanda resterà quella giusta, la risposta giusta arriverà sempre. E tutto ciò che ti serve a crescere nell’amore ti sarà dato. Compresa una moglie o un marito, se sono per te.

Allora tutto avrà senso: essere marito, o non esserlo; essere sacerdote, o non esserlo; essere madre o essere sterile; amare figli non tuoi, per una vita, un giorno o un anno e poi vederli andare via; essere fratello di chi non avresti scelto; essere abbandonato da chi avevi scelto; licenziato o promosso… persino essere professionalmente fallito agli occhi di un mondo che corre troppo velocemente per riuscire a chiedersi dove stia andando; persino vedere franare miseramente tutto ciò che eri convinto ti appartenesse, compresi quei doni e carismi che ti erano affidati.

Persino allora starai vivendo la tua vocazione.

“Signore, come posso oggi amare di più?”: se torni a porti questa semplice domanda ogni volta che ti sembrerà di aver perso la strada, il tuo aver “perso la strada” diventerà solo una deviazione, un’appendice alla grande Storia dell’Umanità che Dio sta scrivendo con te, attraverso te, per la gioia tua e di chi ti sta attorno. Perché questa è la Vocazione. Non un ruolo, non uno stato: la Vocazione è vivere ciò che sei oggi, con Lui.

“Signore, come posso oggi amare di più?”

Perché vivere col Dio cristiano, vuol dire prima di tutto imparare ad amare come Lui “dando la vita per i propri amici”. Se è vero infatti che le “vie del Signore sono infinite”, è vero anche che tutte conducono alla stessa meta, rendendole alla fine diramazioni di una sola strada: l’unica che non è mai preclusa a nessuno. Per amare infatti non serve essere sposati, avere figli o essere preti. Basta un cuore, e la volontà di usarlo. Non a caso Cristo quando parla dell’amore più grande parla dell’amicizia. Perché non tutti sono chiamati ad avere un marito o una moglie per la vita. Ma tutti possiamo avere degli amici. Ciò che rende gli amici tali, infatti, è la nostra capacità di volere il loro bene, nonostante il loro male. Anche quello che potrebbero fare a noi.

Perciò quello che conta non è su quale binario sei, trovargli un nome o una casellina.

Quello che conta è verso dove sta andando il tuo treno. E capire che il viaggio fa già parte della meta. Quale che sia il binario, infatti, se non porta ad amare di più, ad amare davvero, già mentre cammini, allora potresti anche essere formalmente sul binario “giusto” agli occhi del mondo, persino agli occhi della Chiesa, ma il tuo treno starà viaggiando su una strada senza uscita, una strada che conduce alla morte esistenziale. 

E se anche dovessi renderti conto che questo è ciò che stai vivendo, non avere paura. Puoi sempre tornare a vivere la tua Vocazione.

Riponiti la domanda. Risali sul tuo binario. Riprendi il viaggio.

“Signore, come posso oggi amare di più?”

Non guardare il binario degli altri. Il tuo binario è perfetto, perché è unico. L’unico che puoi percorrere. L’unico mai da nessuno percorso, e che nessuno mai più percorrerà come te.

Questo non vuol dire essere fatalisti, non avere desideri o rinunciare a quello che sentiamo nel profondo del nostro cuore. Un treno è fatto per viaggiare, ed è perché desideriamo qualcosa che non abbiamo, che decidiamo di metterci in viaggio.

Io non dico di rinunciare a ciò che ti muove. Né mi illudo che sapere che puoi amare già oggi i tuoi amici, eliminerà il dolore che ogni tanto ti prende, che ogni tanto prende anche me, nel vedere che non hai qualcuno di prioritario accanto con cui condividere la strada.

Io dico soltanto, citando Luigi Maria Epicoco, di “goderti il panorama”, perché è in quel panorama che oggi si gioca la tua vita. Il viaggio, il panorama che attraversi, insieme a coloro con i quali ti è dato condividerlo è già la tua Vocazione. A prescindere dal numero di fermate che ti saranno concesse e dal fatto di raggiungere o no ciò che ti muove.

Alza gli occhi e goditi il panorama, perché oggi è questo il luogo in cui la tua vocazione si compie.

Alzati, riprendi il viaggio, e ama di più. Solo chi sta fermo è perduto.

Solo chi ama non sarà mai un fallito.

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