martedì 31 gennaio 2017

REIETTA E FELICE - Testimonianza di una Donna che ha trovato sé stessa

Pubblico qui di seguito la storia di Grazia (il nome è di fantasia, la storia no): una donna che dopo molti anni e tanta fatica ha trovato il coraggio di guardare con onestà al suo desiderio omosessuale, per scoprire la donna sepolta dentro di sé. La testimonianza è scritta di suo pugno. Il conflitto con i genitori, l'odio per gli uomini, la passione per le donne, il pregiudizio verso gli psicologi... non ho voluto toccare nulla delle sue parole. Espressioni "colorite" comprese. Conosco personalmente Grazia e la trovo un'anima straordinaria, oltre che una donna giovane dalla travolgente simpatia. Anche se è un po' lunga, confido che amerete anche voi la sua schiettezza, e la sua libertà. Quella di una donna che non ha paura di definirsi "reietta e felice". Perché ogni vita vissuta autenticamente porta in sé un seme di Speranza che vale la pena di essere raccontato.

Salve a tutti, mi presento: sono una reietta e sono felice.
Finalmente sono davvero felice. Nella mia vita non è sempre stato così, a dir la verità. Ho sempre avuto problemi nel percepire l'amore intorno a me. Mi sentivo sola, già dai miei primi ricordi. Non pensavo di essere amata dai miei genitori, e questo dipendeva da tanti fattori, di certo legati al mio carattere, alla mia sensibilità, all'impronta educativa non troppo all'acqua di rose e nel fatto che i miei nonni paterni non perdevano occasione per dirmi che i miei genitori erano, fondamentalmente, due beoti.
Ed io crescevo e mi sentivo sempre come una povera vittima, non amata, non capita, con nonni stronzi (perché diciamocela tutta, un bambino si rende conto che quando i nonni cercano di distruggere la figura dei suoi genitori, qualcosa non va), genitori beoti (perché per quanto avessi capito che i miei nonni erano stronzi, ad ogni litigata in casa, dentro me compariva il pensiero "avevano ragione quegli stronzi dei miei nonni a dire certe cose sui miei”): insomma, tutti contro di me.
Essere vittime, sentirsi vittime, volersi sentire vittime. La verità è che questo ci condiziona poi nelle nostre scelte. Perché ci giustifica, qualsiasi cosa accada, il vittimismo di cui nutriamo i nostri rimorsi e le nostre tristezze, con cui autoalimentiamo le nostre debolezze, ci permette di sentirci, nella nostra esistenza di vittime, perfetti.

E qualsiasi cosa faremo o sceglieremo, non saremo mai costretti a metterci in discussione. Perché se anche fosse sbagliato, non è stata tutta colpa nostra, in fondo. Magari è stata colpa dei nonni stronzi o dei genitori beoti (o così percepiti), se non del ragazzino che ti prendeva in giro perché giocavi a pallone e non con le bambole, oppure delle bambine che in terza elementare ti davano del "mezzo maschio" perché avevi l'astuccio celeste invece che rosa e guardavi Dragonball invece di Barbie Raperonzolo.
Durante l'adolescenza, pur ricercando le prime esperienze affettive con ragazzi, mi sentivo spesso confusa sui miei sentimenti: alcune ragazze che conoscevo, cui mi affezionavo e ammiravo, diventavano il mio punto di riferimento, erano il centro gravitazionale dei miei affetti. Sarò stata mica lesbica?!
Mi ci rompevo il cervello nei dubbi e nelle mie paure, sempre presenti come una spada di Damocle che era lì, appesa sopra di me, pronta a farmi a pezzettini prima o poi.
E infatti, la resa dei conti arrivò. Conobbi una ragazza più grande di me di nove anni, e fu il mio primo grande amore. Sì, esatto, parlo proprio di amore. Amore che sentivo vero, sconfinato, immenso, irrinunciabile. Avrei fatto di tutto per lei, volevo solo lei e desideravo solo lei.

Due anni dopo le cose finirono male, in un mare di sofferenza, perché le nostre strade divennero inconciliabili. Lei stava per sposarsi, e nonostante per due anni avessi acconsentito ad essere un'amante (ad accontentarmi delle sue briciole, pur di stare insieme), era giunto il momento di voltare pagina.
Passò un anno, ed ecco per me la prima storia seria con un ragazzo, il primo confronto serio anche su un piano della sessualità. Era una storia seria sul serio eh, mica chiacchiere... si parlava di progetti, di speranze future, di impegni l'uno verso l'altra. Purtroppo però anche questa storia finì male. Caratteri inconciliabili, testardi, ed entrambi con le nostre ferite passate, lasciate aperte, irrisolte. Io iniziavo sempre più a detestare i maschi, a pensare che fossero tutti uguali. Arrivammo spesso agli insulti, e non solo… tenerezza maschile un cavolo!
Mi convincevo che maschi pensassero solo al sesso, che di noi non gliene fregasse un cavolo realmente, che ci avrebbero potuto amare solo in funzione di quello. E finì male davvero quella storia, ma in un modo più veloce rispetto a quanto non sarebbe accaduto (perché prima o poi sarebbe accaduto). Finì male perché io incontrai un'altra Lei.
Che bella. Una bellezza fulminante. La prima volta che la vidi mi sentii, come posso dire… fu come un pugno in faccia! Avevo vent’anni, insomma, va bene gli errori dell'adolescenza, ma se a vent’anni pensi di una tipa delle cose così, a prima vista… oh, ma sarò mica lesbica?
Lei era tutto quello che io non ero. Femminile, davvero tremendamente femminile, ma di una femminilità graffiante, dove non mancavano note di un carattere determinato che spesso usciva senza potersi arrestare, un fiume in piena. Era sensuale, corpo perfetto, mai capace di fermarsi, sempre di corsa in mille attività, lanciata costantemente su mille interessi. Lavoravamo insieme, e tutti i maschi dell'ufficio non perdevano occasione per provarci, occhiatine, battutine, bocca spalancata con bavetta alla Homer Simpson... eppure mi notò.
Io, in effetti, ho fatto di tutto per farmi notare. E più le stavo accanto e più quel rapporto, nato come una "semplice" amicizia (così volevo convincermi) diventava più profondo. Ero innamorata persa, totalmente rimbambita di lei e la sognavo persino la notte. Piccolo problema: era fidanzata con un ragazzo. Eh no, ancora? Mi tocca fare l'amante ancora? Tuttavia, anche lì, il pensiero di poter essere "l'alternativa", il "passatempo", non bastava a fermarmi: volevo solo lei, e dalle briciole avrei fatto di tutto per risalire e farla mia in qualche modo.
Il dolore. Ecco se ripenso a lei cosa ritrovo. Il dolore. Ma che razza di amore era quello? Ma come mi veniva in mente? Quale razza di egoismo chiamavo amore? Credo di averla fatta soffrire tanto (perché ad ogni modo mi voleva bene), così come lei mi ha fatto soffrire, certo. L'avevo messa davanti alla scelta, una volta che ero certa che ormai fossimo legate: me o lui. Cavolo, quella storia l'ho voluta a tutti i costi, non avevo intenzione di perderla, doveva essere mia. E quei maledetti maschi, tutti uguali e tutti incapaci di tenere a bada il pisello, non la meritavano una bellezza simile.

Eravamo una coppia in fondo. Io iniziai a fare coming out in tutti i modi più espliciti. Se gli amici mi chiedevano, dicevo che lei era la mia ragazza, andavo nei locali gay con altri amici gay, facevamo uscite a coppie (rigorosamente di gay): stavamo insieme a tutti gli effetti, porca vacca, perché non poteva funzionare?
Una sera, l'ultima sera in cui ci vedemmo e lei mi disse "addio", mi spiegò che non se la sentiva di mollare la sua vita per stare con me. Che sì, mi amava, ma che a lei “piacevano gli uomini”. Che non capiva come però, ogni volta che mi rivedeva, potesse perdere la testa e desiderare me, che ero una donna. E poi aggiunse "Mi sono innamorata di te. Ho amato non solo la tua parte femminile, ma anche e soprattutto la tua parte maschile".

La mia parte maschile? Ho pensato "questa è pazza".

Poi ho capito. Non ci voleva molto in effetti per capire: se mi guardavo allo specchio vedevo una ragazza solo perché sapevo di esserlo, seppur null'altro lo faceva trasparire: vestiti maschili (andavo a comprare i vestiti spesso nei reparti maschili), capelli corti e alzati col gel, braccialetti di cuoio, scarpe da ginnastica, trucco manco se mi sparavi, modi da scaricatore di porto, camminata a gambe larghe.

Ero una stupida caricatura. Una caricatura di un uomo, proprio di quegli uomini che detestavo con tutta me stessa, con cui non sapevo confrontarmi. Per quanto potessi ignorarlo e convincermi che tutto andasse bene, che semplicemente “io ero fatta così”, la verità era che la mia femminilità la stavo prendendo a martellate. La stavo frantumando.

Lo capii, ma era troppo per me mettere in discussione di nuovo tutta la mia vita, la mia identità, le mie poche certezze che avevo così faticosamente costruito. E poi c'erano tutti i miei amici gay che, caspita, erano così fighi … e così tosti!!!! Erano vittime e stavano lottando per essere riconosciuti e non più perseguitati dall'"omofobia". Era bello poter dire "io sono dei vostri", riconoscersi in un gruppo e non sentirsi più fuori posto in questo mondo.
Comunque, io e lei ci lasciammo, alla fine. Non riuscivo proprio a smettere di pensarla, ad accettare che avevo perso, e lei aveva scelto uno stupido e qualsiasi uomo. Non riuscivo a scordarla, e per me, perderla, significava aver perso tutto quello che non trovavo in me.
Passarono due anni, lunghi, molto lunghi, così tanto che io li chiamo “i miei due anni luce”. Due anni in cui cercai di fare silenzio nella mia vita. Volevo capire, avevo bisogno di capire. Volevo deporre la mia rabbia, il mio costante pensiero di essere una vittima. Non mi bastava riconoscermi in quelle etichette. Ok, figo essere gay, libera, non dovermi nascondere da nessuno (compresi i miei che ovviamente avevano capito e erano palesemente contrari alla cosa, ma non me ne fregava un tubo della loro approvazione, o di mettermi in contrasto, e manco della loro opinione).
Figo, sì. Ma non mi bastava. Doveva esserci di più. Perché dovevo accontentarmi di quella parola, "GAY", appioppata sopra la mia capoccia? Perché non riuscivo a comprendere la mia femminilità, a gestirla, ad amarla? Perché questa femminilità così sfuggente la andavo sempre a cercare in qualcun altra?
Decisi quindi di accettare il consiglio di un caro amico e di andare da uno psicoterapeuta, e non dopo pochi ripensamenti.
Punto n.1: io non ero malata. Caspita, dallo psicoterapeuta ci vanno i matti, gli schizofrenici, quelli con disturbi post traumatici, i bipolari, quelli che vanno riabilitati perché socialmente pericolosi, quelli che quando camminano contano le mattonelle, che parlano con il koala immaginario sul comodino o che chiacchierano con la Madonna della partita, insomma. No una persona gay! Mica è una malattia! Quindi, che cavolo dovevo andarci a fare da uno psicoterapeuta?
Punto n.2: posto che ci vado, cosa mi fa? Mi lega alla sedia, mi tiene le palpebre aperte come su Arancia Meccanica e mi fa vedere filmati di propaganda etero? Con immagini di gay al rogo, dicendomi "se continui così finirai male!", o con proiezioni di scritte subliminali tra le immagini, tipo: "il sesso giusto è solo maschio-femmina"?
Oppure mi ipnotizza e mi convince che gli uomini sono meglio delle donne? Che mi fa sto tizio? Come potrebbe mai aiutarmi a rispondere alle mie domande?
Alla fine, tira e molla con i miei mille pensieri, dissi "Vabbè, andiamo. Al massimo me ne vado".
Già il nome "terapia riparativa" non mi diceva nulla di positivo … e mi dava pure un po’ sui nervi, se devo essere sincera. Anche se guardandomi bene, qualcosa da riparare c'era: la mia anima ferita.
E quindi, la mia “terapia ripartiva” volete sapere qual è stata?
Il dottore mi disse semplicemente che nessuno nasce gay o etero, che siamo frutto di quello che viviamo. E fino a qui, pensai “ottimo, anche stavolta ho perso un’ottima occasione per rimanere a farmi gli affari miei”. Voglio dire, non mi serviva di certo andare dallo psicoterapeuta per capire una cosa del genere, bastava leggersi diversi studi di biologia e psichiatria, con le posizioni delle neuroscienze, per non parlare di tutto l'ambito medico che si è espresso sulla plasticità del cervello. Ed io, di quella roba lì, avevo già letto almeno un milione di articoli.
Ma andiamo avanti.
Mi ha fatto fare una serie di test, tipo Minnesota e altri test standard (quelli che si fanno anche nei concorsi pubblici per intenderci), niente “domande strane” o somministrazioni di test a trabocchetto da compilare in valsi col sangue del pollice. Quindi, persone che come me temevano strane iniziazioni con piume appiccicate in testa, o unzioni con medicamenti miracolosi, sbandieramenti di crocifissi, benedizioni ed esorcismi al grido di "esci da questo corpo spirito gay!", rimarrebbero molto deluse.
Alla fine mi ha fatto raccontare la mia storia, prendendo appunti di tanto in tanto, senza dare nessun tipo di giudizio, senza accennare al giusto o allo sbagliato, al bene e al male. Era in silenzio, mi ascoltava e basta.
Dopodiché ci siamo salutati in attesa che potesse, alla luce di tutto quanto raccolto, operare la sua sintesi clinica.
Per farla breve, la faccenda si concluse così: mi spiegò il perché io provassi attrazione per le ragazze. Perché odiassi gli uomini, e sfregiassi la mia femminilità. Non mi ha IN ALCUN MODO cercato di convincere sul "etero è giusto, etero è meglio, così finisci male". Mi ha solo detto il PERCHÉ (con un lumen di tipo psicologico, vagliando gli episodi della mia vita) io provassi certe emozioni e mi sentissi così.
Ecco a voi signori la mia “terapia ripartiva” da parte dello psicoterapeuta. La parte difficile veniva per me: confrontarmi con la verità oggettiva, fuori dal mio punto di vista. La vera attività di “riparazione” dell’anima doveva venire dalla mia volontà.
Iniziai quindi a rileggere ogni mia esperienza alla luce di quanto il doc. aveva spiegato sulla mia vita. "Allora ecco perché quella volta mi sono sentita così! Ecco come mai quando mi succede questo mi viene da pensare così", ecc. ecc.
E soprattutto compresi, riflettendo, che le differenze tra donne e uomini ci sono e sono innegabili. Che la natura delle cose gira come è stata costruita, con un senso, dove la necessità della complementarietà del maschile e femminile è innegabile. E questo per esempio lo vedevo proprio in me, che non potevo essere un uomo e odiavo i maschi, ma mi atteggiavo come una copia (anche piuttosto grottesca) di loro.
Iniziai a voler riscoprire la mia femminilità, fu un processo lungo, ma più questa emergeva nuovamente e più ne sentivo il bisogno.
Tuttavia mi chiedevo costantemente: "come mai sono arrivata ad amarle quelle ragazze?". Un conto è attrazione, infatuazione, e qualsiasialtracosa-zione...ma innamorarsi, perdutamente, porca miseria, è un'altra cosa!
La risposta ce l'avevo sotto gli occhi tutti i giorni, e finalmente, dopo del tempo, capii: in ognuno di noi c'é la grande motivazione per cui esistiamo, la sola grande e vera predisposizione per cui nasciamo... AMARE.
Ma ci sono modi e modi di amare. Modi più giusti rispetto a quell'Amore per cui siamo stati creati, e modi più lontani. Io le amavo quelle ragazze, ma in funzione mia. In funzione del mio egoismo scriteriato (altra forma di “amore”, ben distante da quello per cui siamo nati).
Io sono una donna, e questo non è riconsiderabile né si può dire il contrario. Io sono una donna e sono nata per un Amore più grande del mio piccolo egoismo e del mio bisogno. Non metto in dubbio e non posso mettere in dubbio che io abbia amato quelle ragazze (perché Dio solo sa quanto le ho amate, a modo mio, certo, e purtroppo sbagliando, ma era il solo modo che conoscevo), eppure, io non sono nata per questo.
Qualche mese più tardi arrivò LUI.
Il che mi sconvolgeva, e nemmeno poco. Un uomo ed io? No, no, non poteva andare. In più, un uomo anche figo, che figuriamoci se poteva interessarsi ad una come me... ci doveva essere la fregatura. Magari era un pluriomicida, o un evaso da qualche istituto mentale. O nella migliore delle ipotesi era un semplice "amatore seriale”, ecco perché faceva tutto il simpaticone. Gli uomini sensibili, carini e coccolosi sono una figura così mitologica, che è più plausibile incontrare la fatina dei denti mentre ti lascia il soldino sotto il bicchiere.
È andata a finire che avevo torto. Avevo torto e di brutto. È andata a finire che mi sono innamorata di quel Tipo, e dovetti constatare, con mia gioia e sorpresa, che non era né un pluriomicida, né un ex internato e manco aveva intenzione di portare a letto l'ennesima conquista. Ho scoperto che era simpatico, che come mi fa ridere lui nessuno ci riesce (e nemmeno a farmi incavolare così tanto a dir la verità: siamo complementari, anche per questo!), che era sensibile spesso anche più di me, che era davvero coccoloso, e che mi amava e mi avrebbe amata, così come ero, senza scappare davanti al macigno che mi portavo dietro, restandomi accanto.
È andata a finire che quel Tipo me lo sono sposata, che ho scoperto di poter amare in un modo che mai avrei immaginato, dove "pretendere e prendersi" non porta a nulla, dove conta solo darsi, dove spesso anche il dolore scandisce i giorni, perché Amore è anche dolore, sacrifici, paure e tanta fiducia. Ma sono felice. Lo Amo, e ho imparato ad accettarmi, a sentirmi di nuovo donna, a capire chi fossi come donna e quale fosse il mio posto a questo mondo.
È andata a finire che aspettiamo una bambina, e non tornerei mai indietro, che nonostante le mille difficoltà che il matrimonio, la gravidanza, la vita di coppia nella sua "diversità" comportano, io sono felice.

La mia storia è per raccontarvi solo la mia esperienza (la mia personalissima esperienza), non voglio dire cosa è giusto e sbagliato fare.
Però pretendo il diritto di poter dire la mia, in qualità di persona che ha vissuto qualcosa di diverso da quello che si sente in giro.
Pretendo il diritto, per le persone che come me volevano cercare una risposta, che sentivano l'esigenza di un'alternativa, di poter ricorrere alle cosiddette “terapie riparative”, senza che le stesse vengano messe al bando dalle lobby.
Voglio il sacrosanto diritto di urlare che io esisto, e che sono la dimostrazione vivente che si può cambiare, e che il cambiamento avviene solo quando lo si cerca e perché lo si vuole. Perché si sente che quella vita non ci basta. Possibile che questo diritto vada cancellato? Non ho mai sentito di imposizione di “terapie riparative” nelle scuole, mentre ho sentito più volte l’imposizione dell’ideologia gender nelle stesse. Io pretendo il diritto di poter liberamente accedere alle terapie riparative per chiunque VOGLIA farlo.
Voglio poter chiedere alle persone che non hanno mai avuto esperienze omosessuali, che non hanno la minima idea di come sia l'ambiente gay vissuto in prima persona, di fare un bell'atto di umiltà e non parlare a vanvera, soprattutto autonominandosi dottori in cose di cui spesso non sanno nulla.  Rimanete in silenzio piuttosto che accodarvi al pensiero delle associazioni LGBT, che non vi riguarda e di cui non vi sentite nemmeno troppo toccati, in realtà. Perché la paura vera è quella di essere tacciati di “bigottismo” ed è sempre dietro l’angolo. Non ergetevi a paladini di non si sa che cosa. Rispettateci.
Voglio poter dire la mia, voglio poter dire che l'unico Amore di coppia per cui siamo nati è quello uomo-donna, e che la gioia e la profondità che tale Amore può dare, non è descrivibile.
Voglio poter raccontare la mia storia senza essere censurata: noi esistiamo e facciamo paura alle associazioni LGBT, che NON rappresentano il pensiero di tutti gli omosessuali, ma solo di una ristretta minoranza, dotata però di forte eco mediatica e visibilità.
Voglio potermi rivolgere ai miei fratelli, amici che vivono quello che anche io ho vissuto. Amici, che avete attrazione per persone del vostro stesso sesso, e che amate persone del vostro stesso sesso, vorrei chiedervi se davvero vi piace l'idea che la frangia più esaltata ed estremista degli omosessuali, aneli all'imposizione di etichette anche sulle vostre vite. Voglio chiedervi se vi sembra giusto ed appagante il fatto che verrete sempre considerati in primis "meritevoli di tutela in quanto gay" e non in quanto persone.
Voglio poter gridare che la mia "omofobia" (perché sì, mi hanno anche dato dell'omofoba, i benpensanti) attiene alla paura della standardizzazione del pensiero, del non poter permettere ad altri di dire la propria, se non allineati al politicamente corretto e alle idee delle associazioni LGBT. La mia vera fobia riguarda la censura legalizzata, che ti accusa di spargere odio e discriminazione solo perché si pensa qualcosa di diverso, anche semplicemente raccontando la propria esperienza personale.
Vorrei poter dire che mi sembra assurdo ascoltare alcune parole da parte di persone omosessuali, tipo: "quando sento parlare di famiglia naturale vorrei prendere un kalashnikov e sparare in piazza". Per poi tacciare di violenza, bigottismo e discriminazione l'esposizione di un differente pensiero.
Voglio poter dire che due più due fa quattro e che da due uomini e due donne la vita non può nascere.
Una mia cara amica (“attivista gay e fieramente gay”, come si è spesso definita, cui ho voluto e bene e cui continuo a voler bene da lontano, purtroppo), non mi rivolge più la parola da anni.
Mi chiamava sorella. E poi, mi ha chiamata "reietta".

Si, amica mia, sono una reietta, e sono felice. Davvero felice.

lunedì 16 gennaio 2017

LE FERITE E IL TERRENO DELL'ANIMA



Le ferite dell’anima: abbiamo passato una vita a cercarle, stanarle, odiarle. Quando non siamo vissuti nella totale inconsapevolezza della loro esistenza. Allora permettevano che esse condizionassero la nostra vita portandoci a meccanismi automatici di cui eravamo all’oscuro.

Poi una volta compreso il loro potere devastante, siamo diventati delle furie, per quel male innocente di cui eravamo stati vittime e di cui non avevamo colpa. E in questo modo continuavamo a dare potere a quel male che le aveva generate.

Lo abbiamo odiato quel male: il Nemico. Abbiamo odiato chi ha segnato la nostra anima, tracciando in noi un solco indelebile quando eravamo deboli, indifesi, talora troppo piccoli persino per ricordare. E quando ci siamo resi conto di quanto le ferite ci condizionassero, l’ansia di non riuscire più a ricordarle tutte ci ha terrorizzato. Abbiamo temuto che per questo esse avrebbero continuato a renderci schiavi. Senza possibilità di salvezza.

Ma non avevamo considerato qualcosa. E nemmeno lui, il Nemico.

Il Male infatti è astuto, ma non è sapiente. Chi è astuto guarda al momento, al qui e ora, ad arraffare ciò che può senza preoccuparsi delle conseguenze, né vedere in prospettiva. Ma chi è Sapiente sa vedere oltre, lontano.

E sa attendere.

Il Sapiente sa che là dove c’è un solco profondo, un domani qualcosa di buono può essere seminato. 

E così, mentre un Oscuro Signore, all’alba della nostra vita, ci colpiva nel sonno dell’esistenza, ancora incoscienti, di modo che, quando ci fossimo svegliati, credessimo di essere sempre stati segnati così, un Signore molto più grande e potente lo seguiva a distanza e in ognuno di quei solchi tracciati nella nostra anima, seminava la sua Grazia, piangendo per il male che ci era stato fatto e riversando il suo amore. 

Senza saperlo, mentre il Nemico cercava di violarci, in realtà stava facendo posto dentro di noi.

Quel Signore, il Sapiente, il Signore del Campo, sapeva che a tempo debito da ognuna di quelle ferite quel seme di amore sarebbe germogliato. E quel germoglio avrebbe affondato le radici in modo molto più saldo, quanto più la ferita in cui era nato fosse stata profonda. 

Come infatti il terreno ha bisogno di essere dissodato prima di essere seminato, per portare frutto e perché quel frutto rimanga, così la nostra anima ha bisogno di fare spazio per accogliere tutta la potenza dell’amore di Dio. 

Se solo ce ne fossimo resi conto prima! Se solo avessimo capito prima che nel segreto non agiva solo il Male con i suoi solchi profondi e dolorosi! Nel segreto c’erano molti più semi di Bene piantati, molti dei quali, come per le ferite, non riusciremo nemmeno a vedere, eppure porteranno frutto lo stesso. 

Noi siamo il campo ferito.
Noi siamo il campo dissodato. Con dolore, con fatica certo. Forse con rabbia.
Eppure porteremo frutto lo stesso. Perché il proprietario di quel campo non è l’Oscuro Signore, ma qualcuno che il campo della nostra anima lo ama più di sé stesso.

Egli ha seminato la sua Luce nel profondo delle nostre Tenebre. Lo ha già fatto. Molto tempo fa. Perché nulla andasse perduto. Nemmeno quel dolore che lui non voleva per noi, ma che qualcuno ci ha inferto a tradimento.

Allora non sarà più importante ricordare o scovare ogni ferita. L’importante sarà innaffiare tutto il campo, prendersi cura di tutto ciò che siamo. Perché tutto germogli, anche dove non siamo in grado di vedere o di ricordare. Nella fiducia che in tutto ciò che siamo, Dio ha nascosto il suo seme di Vita.

A noi sta innaffiare il terreno con fiducia. Tutto.
Anche dove ci sembra che non valga la pena.


A chi crede e a chi ancora no, non smettete di cercare la Speranza.
Voi siete meravigliosi.

lunedì 2 gennaio 2017

"GIORNI DI UN FUTURO PASSATO", da LincMagazine, Dicembre 2015

Un anno fa si è conclusa la mia collaborazione con Manpower Group, azienda con la quale ho avuto modo di lavorre con gioia, e con la loro rivista Linc Magazine, per la quale tenevo la rubrica di storie di speranza sul mondo del lavoro "Io sto con Giorgio!". Questo fu l'ultimo articolo, in chiusura 2015 e in chiusura di un evento come EXPO, diventato famoso più per le polemiche che per le prospettive che si riprometteva di aprire. A un anno da allora, l'augurio che contiene mi sembra ancora attuale e valido per questo 2017. Il futuro che ci aspetta infatti affonda le radici nel nostro passato. Che le vostre radici siano sempre salde e profonde per permettere alle vostre fronde di stendersi lontano. 
***
La storia che vi racconto oggi è avvenuta un anno fa, durante uno dei miei soliti incontri casuali-volontari, e già allora mi colpì parecchio.

Mi trovavo sulla navetta per l’aeroporto di Linate e avevo appena ricevuto le bozze definitive della copertina del mio romanzo, Io sto con Marta!. Preso dall’entusiasmo, e un po’ dalla preoccupazione, senza pensarci su (difetto che ho spesso, quando parlo) mi voltai verso la mia vicina di sedile, una donna giovane, con un bimbo in braccio e brandendo il mio cellulare a un centimetro dal suo naso le chiesi: “Lei lo comprerebbe un libro con questa copertina?”

La malcapitata, pur stringendo un pelo più a sé il bambino, per fortuna ebbe la gentilezza di non alzarsi e scappare a gambe levate e mi rispose, dopo averci pensato un po’ su, che sì, le piaceva e l’avrebbe comprato.

Poco da dire: dopo un secondo ci stavamo raccontando le rispettive vite. E sentite cosa scoprii: la ragazza stava fuggendo dalla Germania per tornare nella sua terra, la Puglia. Tranquilli, niente che evocasse scenari da Seconda Guerra Mondiale.

Però no, non avete capito male: un’italiana, per di più meridionale, stava fuggendo dall’economia più florida del vecchio continente (o almeno così si dice) per tornarsene nella profonda terronia (sono terrone anche io, mi è concesso chiamarla così!).

Con il marito avevano deciso di sfruttare un’occasione propizia e aprirsi un negozio a Berlino un anno prima. E come lo avevano aperto, ora lo stavano chiudendo in tutta fretta per tornare a gestire quello di famiglia nel loro paese.

Perché, direte voi? È quello che le ho chiesto anch'io.

Semplice: quella non era l’Italia. La cultura, il tempo, il modo di stare assieme… tutto era diverso. E tutto questo non valeva i vantaggi economici e gli sgravi fiscali. Loro non volevano un futuro lì. Certamente lei e il marito erano più fortunati di altri ad avere una vera opportunità di scelta, ciononostante questa storia non mi ha lasciato indifferente. Il motivo per cui ve la ripropongo oggi, dopo un anno, è proprio legato al futuro che vogliamo.

EXPO è finita da poco: le code, i disagi e le polemiche sono a un tratto alle nostre spalle, insieme agli spettacoli, agli sponsor, alle luci e i giochi d’acqua e al sogno di un mondo che dia “energia per la vita”.

E adesso? Qual è il futuro che ci aspetta? Cosa resterà di questa immensa vetrina mondiale?

Se una cosa da questo evento ho imparato è che il nostro pianeta è composto di una varietà infinita di risorse naturali e culturali che vanno rispettate e preservate, poiché dalla diversità nasce la ricchezza. In tutti i sensi possibili.

Se però a questa diversità volteremo le spalle, forzati dalle circostanze a un’omologazione economica quanto culturale, saremo come alberi che protesi verso un corso d’acqua  finiscono sradicati dal terreno buono nel quale sono cresciuti, rischiando di morire.

Ecco, io credo che la storia della mia malcapitata compagna di viaggio ricordi a tutti proprio questo: le nostre radici ci dicono chi siamo, e senza di esse non possiamo vivere. E i Pugliesi, con i loro olivi secolari, lo sanno bene.

Se una speranza deve lasciarci EXPO è che nel futuro ognuno di noi possa “nutrire il pianeta”, dal piccolo frammento che ne occupa, in cui è nato è cresciuto, lì dove affondano le sue radici. Che chi parte, lo faccia perché vuole, come è capitato a me, e non perché deve. Che più che a una pianta che si sradica, sia simile a un rampicante, che arriva lontano continuando a nutrirsi della terra che lo ha generato. E che il lavoro, come l’economia, tornino a essere “energia per la vita” delle persone, e non la vita delle persone energia (o combustibile) per il lavoro.

Natale è vicino e a tutti è concessa una preghiera. La mia per voi, per noi tutti, sarà questa: che il nostro futuro non rinneghi il nostro passato.

A tutti, chi ce l’ha e chi ancora no,

Buon Lavoro!