martedì 15 novembre 2016

CHI "ROMPE" GUADAGNA! E DI COCCI NON NE HA. Da Linc Magazine, Marzo 2015





Ogni volta che scendo in Sicilia mi chiedo cos'altro troverò di chiuso. Perché se la crisi si sente ovunque, è vero che da noi si sente di più.

E così se percorri Via Ruggero Settimo, la strada che in un’altra epoca era stata il Salotto Buono di Palermo, ti può capitare di passeggiare fra le macerie di quel mondo antico; macerie invisibili e per questo peggiori di quelle della Seconda Guerra Mondiale, perché presenti solo nel ricordo di chi quel mondo l’ha vissuto o almeno ne ha assaporato gli ultimi respiri, e quindi destinate a sparire con lui.

Passi davanti ai resti della vecchia Libreria Flaccovio, per decenni l’ultimo baluardo dell’antica editoria palermitana, e scopri che al suo posto c’è un negozio di abbigliamento, di quelli che fa i vestiti in Cina o chissà dove; prosegui rattristato e ti ritrovi davanti al ventre vuoto di Mazzara, il caffè che per cento anni ha nutrito i Palermitani di dolci e prodotti fragranti, dove Tomasi Di Lampedusa, sotto gli occhi di mio nonno, scriveva a un tavolino il suo Gattopardo, e dove ora giace un locale buio e senz’anima. Torni indietro, più giù, in cerca di qualcosa che ti ricordi la città in cui hai vissuto e i tuoi piedi ti portano davanti Carieri&Carieri: generazioni di uomini palermitani hanno comprato qui i loro abiti di alta sartoria. Di padre in figlio, la tradizione di chi voleva un completo che durasse una vita, veniva consacrata in questo luogo.

Chiuso anche lui. Le prove della sue esistenza si impolverano nel mio armadio.

Mi guardo intorno, e scopro che al posto dei luoghi che davano un’anima a questa città è tutto un brulicare di marchi stranieri. A un tratto passeggiare qui, o in Corso Vittorio Emanuele a Milano, o in Via del Corso a Roma è esattamente la stessa cosa.

Tutto perduto.

O forse no...

Quando sono sul punto di credere che questo nostro mercato globale abbia ucciso la bellezza delle produzioni locali, mi infilo in una stradina sconosciuta ed eccolo lì, un baluardo di speranza.

Nascosto agli occhi del grande pubblico un negozietto con un’insegna divertente attiva i miei ricordi: “Le rompiscatole”. Qui, da tredici anni, un paio di donne hanno messo su una realtà artigianale che sopravvive in barba a tutti i trend del momento: in un posto grande quanto la mia camera da letto le proprietarie realizzano e mettono in vendita oggetti di arredo decorati a mano. Pezzi unici, deliziosi, allegri. Di quelle cose considerate assolutamente inutili e che costano pure un po'. Quando hanno aperto, non c’era ancora la crisi di oggi, eppure io avevo predetto (con molta poca lungimiranza): “Bello. Un anno e chiuderà”.

Oggi le rompiscatole sono ancora lì, a smentirmi, premiate dal loro talento e da quell’esser artigiane e un po' artiste in un'epoca in cui le nuove tecnologie sembrano l'unica frontiera possibile per il mercato: una generazione di passaggio tra un mondo che non esiste più e uno che non esiste ancora, a ricordarci che ciò che ha reso l'Italia (e la Sicilia) apprezzate nel mondo sono proprio la creatività e l’abilità fondate su un valore irriproducibile in serie: la mano umana, che fa diversa ogni cosa, e proprio per questo rende ogni cosa unica.

Entro, facendo tintinnare la campanella, e vengo subito accolto dal sorriso gentile delle due ragazze. Lo stesso che resta immutato da tredici anni.

Lo stesso che fa sorridere anche me.
Sospiro sollevato. Forse non tutto è perduto.


A tutti, chi ce l’ha e chi ancora no,

Buon Lavoro!

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